Per questo mese potrei aver sgravato e scritto davvero troppo :’) per cui c’è il rischio che il contenuto dell’email venga tagliato. Per evitarlo, puoi leggerla nell’app di Substack 🫶🏻
Avrei voluto inserire un emoji della nebbia accanto al titolo ma quella che presumo sia di Apple è davvero oscena 🌫
Oggi partiamo da un assunto: ogni volta che torno a Napoli mi ammalo.
Ultimamente ci sono stata per il ponte dei morti e quando sono rientrata a Milano alle 10 di sera di un lunedì ad accoglierci c’era uno strato fitto fitto di nebbia, di fronte al quale il mio ragazzo era sinceramente inorridito.
E io?
“Io non andrei a Milano, perché ho qui il mio lavoro,” disse “ma non capisco chi ha trovato del lavoro a Milano, e lascia quella città per tornare nel Sud. Oh, non faccio allusione ai vantaggi economici, ma Milano è incantevole, specialmente l’inverno, con le sue nebbie. (…) Quando sono stanco,” proseguì Nino “sogno spesso di passare a Milano un inverno. Mi rinchiuderei in un alberguccio della periferia, e rimarrei intere giornate a guardare la nebbia, seduto dietro una finestra. (…) La nebbia rinnova per me queste sensazioni, di quiete e di vita insieme.”
Le parole sono pronunciate da un personaggio di Anna Maria Ortese nelle ultime pagine de Il mare non bagna Napoli, ed è così che mi sono sentita io la sera di quel 4 novembre uscendo dalla stazione della metro del quartiere in cui abitiamo.
Non mi sono azzardata a dirlo: è impopolare, non avrei saputo esprimerlo così poeticamente e poi mi dispiaceva per lo stato d’animo luttuoso del mio fidanzato, e non volevo infierire.
E poi non è sempre così.
Viviamo a Milano da tre anni ormai e il ritorno a casa è sempre stato caratterizzato da un mix di umori e malumori molto eterogeneo.

Questa volta, complice forse il fatto che avevo trascorso l’intera settimana con l’influenza intestinale, ero felice di andare via e di tornare ad abitare in una città in cui effettivamente è novembre (prima di partire c’erano tutte le foglie autunnali a rendere il parco che vedo da casa così poetico, mentre a Napoli si facevano ancora i bagni in mare).
Tornando all’assunto iniziale e al motivo per il quale ne parlo, tuttavia, serve fare un breve excursus sull’andamento della mia salute da quando mi sono trasferita:
A Natale 2021 ero andata via da un mese e mezzo e quando sono tornata per passare le feste con i miei ho dovuto prolungare la mia permanenza perché mi sono presa il Covid (c’è da dire che allora eravamo nel pieno di un’ondata di nuovi casi).
Ad Agosto 2022 ho fatto tappa a casa per una settimana prima di partire per la Grecia. Un imprevisto ha ritardato la partenza, per non perdere giorni di ferie abbiamo ripiegato su due giorni in un posto bellissimo della Costiera Amalfitana dove sono stata punta dalle cimici da letto (io da sola, pur dormendo nello stesso letto del mio ragazzo).
Due giorni dopo siamo finalmente partiti per la Grecia e al ritorno ✨sorpresa✨: avevo di nuovo il Covid, dopo soli 8 mesi 🤡
E questa sono io a Capodanno 2024:
Questa newsletter non nasce per essere il mio confessionale o la mia seduta mensile di terapia (che comunque dovrei riprendere), e poi non sono mai stata brava a parlare di me in prima persona.
Perciò farò come faccio sempre: scaverò nei libri per ritrovare i miei stati d’animo, per cercare un senso - magari condiviso - a quello che sento e che vivo.
“Alla fine è un’esperienza di città che non si cancella nemmeno volendo e che risulta utile dappertutto. (…) Quando ci torno ho momenti iniziali di entusiasmo incontenibile, poi passo a odiarla nel giro di un pomeriggio, regredisco, ritorno muta, avverto un senso di soffocamento, un malessere diffuso, (…) nei fatti resta un luogo di scomposizione, di disarticolazione, di perdita della testa che ho imparato a fatica a far funzionare un poco, fuori di lei.
- Elena Ferrante, La Frantumaglia, 2003
Quando sono tornata a Napoli l’ultima volta avevo quasi finito di scrivere la prima newsletter: l’obiettivo era quello di ultimarla e pubblicarla mentre ero lì. In fondo avevo anche qualche giorno di ferie, sarei riuscita sicuramente a prendermi un momento libero per farlo.
E invece poco dopo aver rimesso piede a casa la voglia di fare qualsiasi cosa mi ha abbandonata. È stato un mix di sensazioni negative fisiche - avevo davvero la febbre e la nausea e il mal di stomaco - ma anche mentali. Stare a Napoli mi fa spesso sentire sopraffatta, mi svuota, ho bisogno di qualche giorno per riabituarmi, per tornare ad indossare i panni di quella che ero fino a tre anni fa - e quindi sentirmi di nuovo a mio agio nella mia città - cercando al contempo di lasciare spazio anche a quella che sono adesso.
Tra l’altro forse sbaglio a dire Napoli. Non mi illuderò e non ti illuderò, anche se mi sarebbe piaciuto - forse - non sono cresciuta in città ma in un paese della provincia di 18mila abitanti. Tuttavia, sento il legame con “la città” molto forte: ci andavo con i miei amici e amiche quando non avevamo voglia di entrare a scuola - una volta, poco prima delle vacanze di Natale, hanno rapinato i miei amici - ; uno dei miei primi libri comprati con i miei soldi - i soldi delle paghette - l’ho comprato nella Feltrinelli di Piazza dei Martiri, e a distanza di anni è ancora uno dei miei libri preferiti.1 A Napoli ho frequentato l’università per quasi quattro anni mentre lavoravo part time dal lunedì alla domenica: era bello fuggire tra le mura umide e antiche della Federico II e le facce calate sui libri, sognare ad occhi aperti il mio futuro da psicologa, torcersi dall’ansia e poi sentirsi leggerissima dopo un esame (al primo, Psicologia Generale, ho perso la lode perché non ho saputo rispondere a una domanda di cui avrei potuto conoscere la risposta solo se avessi frequentato le lezioni. Non le frequentavo perché dovevo lavorare, e per dirlo con una citazione di TikTok “e questo riassume bene la persona che sono”).
E non c’è solo il legame personale e soggettivo, fatto di micro ricordi ed esperienze. C’è tutta la realtà - sociale ed economica - di Napoli che anche a distanza di chilometri torna facilmente - e di frequente - a tormentarmi.
“Napoli dovrebbe avere i riflettori sempre addosso, da decenni. Ha una storia molto lunga di degrado, è una metropoli che ha anticipato e anticipa i mali italiani, forse europei. Perciò non andrebbe persa mai di vista. Ma i media vivacchiano sull’eccezionale: i morti ammazzati, la spazzatura non rimossa (…) La norma dell’invivibilità quotidiana non fa notizia. Perciò, quando l’eccezionale passa, tutto tace e tutto seguita a incancrenire.”
È il secondo brano tratto da La Frantumaglia di Elena Ferrante che prendo in prestito per questa newsletter.
Non l’ho ancora terminato perciò non ne parleremo approfonditamente in questa sede, anche se ha molto da dire sul suo rapporto con la città in un modo che sembra anche il mio.
Niente paura, poco dopo la partenza da Napoli ho iniziato in treno un altro libro che parla di lei.
🌊 Il mare non bagna Napoli
Pubblicato nel 1953, recuperato al Libraccio - mio spaccio principale di libri cartacei - a inizio settembre 2024 durante una delle gite del sabato mattina in libreria.
È una raccolta di racconti, una forma letteraria che ad essere sincera non amo; questa raccolta ne contiene cinque, più una specie di prefazione scritta dalla stessa Ortese da rileggere a fine libro per poter inquadrare meglio il senso dell’opera.
Potrei dire che non amo i racconti perché la loro brevità - solitamente - non mi lascia tempo per entrare in sintonia né con la storia né con i personaggi, e in parte è vero. Ma la ragione principale è che non li capisco mai fino in fondo e alla fine mi fanno sentire stupida.
Il mare non bagna Napoli è stato accusato di essere “un libro contro Napoli”, e dopo la pubblicazione la Ortese è stata costretta ad andare via e a non tornare “nella sua città” (così l’ha definita, anche se lei è nata a Roma) mai più, se non “una sola volta, per qualche ora, e fuggevolmente.”
Il libro ci porta nella Napoli - che forse era l’Italia intera - del dopoguerra: non quella del boom economico ma quella della miseria, degli stracci, del tappeto di carne della folla che si muove tra i vicoli sporchi, dei Granili.
È vero che Napoli viene descritta crudamente e ne viene fuori un ritratto piuttosto impietoso, sia della città che dei suoi abitanti, persino degli intellettuali dell’epoca che pure circondavano la scrittrice, protagonisti dell’ultimo racconto.
Ma per la Ortese i suoi racconti contro Napoli nascevano da una nevrosi sviluppata dopo aver vissuto gli anni della guerra (“terrore dovunque e fuga per quattro anni”), dalla sua irritazione verso il reale, dallo spaesamento dovuto a tutto questo.
“Erano molto veri il dolore e il male di Napoli, uscita in pezzi dalla guerra. Ma Napoli era città sterminata, godeva anche d’infinite risorse nella sua grazia naturale, nel suo vivere pieno di radici. Io, invece, mancavo di radici, o stavo per perdere le ultime, e attribuii alla bellissima città questo spaesamento che era soprattutto mio.”
La Ortese dichiara di aver scritto questo libro accompagnata dal “male oscuro di vivere” e non si fa fatica a crederlo, in certi punti è un vero macigno ma personalmente ho finito per apprezzarlo.
Nevrosi o no, spaesamento o no, non si può dire che la Napoli descritta in questo libro, la Napoli non bagnata dal mare, sia una Napoli che non è mai esistita.
Ho apprezzato particolarmente il primo racconto intitolato “Un paio di occhiali”: una bambina, Eugenia, ha la vista così rovinata da non vedere quasi nulla. Abita con tutta la sua famiglia - zia compresa - stipata in un basso, e sta per mettere gli occhiali per la prima volta. Gli occhiali sono costati a sua zia un occhio della testa, li hanno acquistati in un negozio di Via Roma, dove la piccola Eugenia ha potuto provarli “con le gambe che tremavano per l’emozione, e non aveva potuto reprimere un piccolo grido di gioia.”
C’era un caffè coi tavolini rossi e gialli e delle ragazze sedute fuori, con le gambe una sull’altra e i capelli d’oro. Ridevano e bevevano in bicchieri grandi, colorati. Al di sopra del caffè, balconi aperti, perché era già primavera, con tende ricamate che si muovevano e, dietro le tende, pezzi di pittura azzurra e dorata, e lampadari pesanti d’oro e cristalli, come cesti di frutta artificiale. Una meraviglia.
Morale della favola, quando qualche giorno dopo la madre della bambina va a ritirare gli occhiali e lei per la prima volta li indossa, dà di stomaco tanto è lo sgomento per quello che scopre intorno a sé.
“Figlia mia,” a parlare è la vicina del piano di sopra, benestante “parlo così perché so i guai di casa tua. Con seimila lire di differenza, ci compravate il pane per dieci giorni… A te, che ti serve veder bene? Per quello che tieni intorno!”.
♟Intermezzo
Dal 1953 ci spostiamo con un balzo al 2024 - in realtà ho letto un altro libro del ‘53, ma ne parleremo più avanti - perché a novembre ho recuperato anche Intermezzo, l’ultimo libro di Sally Rooney edito in Italia da Einaudi.
La voglia di leggerlo è stata dettato da tutto l’hype che da mesi ruota intorno a questo libro - per l’uscita all’estero c’è gente che ha fatto la fila in libreria, davvero inusuale per il settore - e dalla folgorazione datami da Dove sei, mondo bello? che ho recuperato il mese scorso.
Intermezzo non ha sicuramente deluso le mie aspettative, anche se per mio gusto personale - e per esperienze forse - mi è piaciuto di gran lunga di più il sopra citato penultimo romanzo.
Prima di iniziarlo avevo sentito dire che Intermezzo è un libro sul lutto, perché i due protagonisti intorno ai quali ruota tutta la storia hanno appena perso il padre dopo un lungo periodo di malattia.
Più che un libro sul lutto, però, a me è sembrato un libro sulla perdita: sulla perdita del futuro che si era immaginato - da soli e con un’altra persona - sulla perdita di sé e del proprio equilibrio psicologico, sulla perdita dei pregiudizi e dei paletti che spesso ci vengono imposti da fuori ma con i quali costruiamo ardentemente gli argini per la nostra vita.
Anche qui i protagonisti sono quattro (+ una), sono divisi in due coppie, hanno svariati problemi che poi - mio malgrado - sembrano risolversi nel giro di poche pagine una volta arrivati sul finale. Non apprezzo i finali aperti - secondo me frettolosi - di Sally Rooney, anche se una creator che seguo gli ha dato un significato che mi è piaciuto, ovvero che rispecchiano la transitorietà che caratterizza tutte le nostre vite di giovani millennials.
Vero, ma trovo anche molto vero quello che ha scritto questo utente sconosciuto su Goodreads:
A differenza della volta scorsa non ho empatizzato davvero con nessuno dei personaggi, anche se ho un debole per Ivan (che per me è Ivàn), e ho provato un coinvolgimento a livello altissimo per le storie d’amore - ALT! non è un libro d’amore. È però un libro sulle relazioni umane, che per Sally Rooney sono il centro su cui gravita la vita di una persona, ma di questo ne parleremo - forse - il prossimo mese. Comunque, lei è bravissima a mettere in fila le parole per raccontare i rapporti umani, anzi per farli raccontare dai suoi personaggi: quando leggi le loro pippe mentali ti sembra di stare ascoltando te nella tua testa in un giorno qualunque mentre ti barcameni tra lavoro, ansia, sentimenti e chi più ne ha più ne metta.
Mi ha colpita comunque l’incisività e il significato del titolo - breve, diretto, misterioso; tu lo sai cos’è un intermezzo?
Qualche settimana fa nella sua newsletter2 una mia amica chiedeva in quale “stato dell’identità” ci trovassimo. Ho riflettuto per qualche minuto su quella domanda ma quel giorno non sono riuscita a darmi una risposta.
Oggi invece so di trovarmi proprio in questo stato, in un intermezzo: “un intervallo, spazio di tempo che serve di pausa tra un atto e l’altro d’una rappresentazione teatrale o d’uno spettacolo in genere”, concetto facilmente applicabile anche al momento di passaggio tra una fase della vita e l’altra.
Ho provato diverse volte a scrivere delle liste di libri da leggere o di film e serie da guardare in un determinato mese o un determinato periodo, poi però finisco sempre per scegliere in modo piuttosto istintivo. I libri - o gli altri media - “mi chiamano” quando è il momento giusto, e ho sempre pensato per questo che tutto quello che consumo fosse scollegato e un po’ a caso.
Tuttavia, mentre scrivevo questa newsletter, ho googlato i Granili di cui parla la Ortese ne Il Mare non bagna Napoli: degli edifici multipiano in cui si rifugiavano stipate centinaia di famiglie durante la guerra, simili ai gironi dell’inferno di Dante.
E in uno degli articoli che mi è capitato di leggere, “l’orrore multipiano” dei granili veniva accostato a una struttura simile, stavolta protagonista di un film spagnolo del 2020 il cui sequel è uscito su Netflix proprio a novembre:
Arrivo ridicolmente in ritardo rispetto al resto dell’umanità, lo so, ma perdo totalmente interesse per un film quando c’è intorno troppo hype (ed è per questo che probabilmente vedrò Partenope di Sorrentino nel 2029 😂).
La cosa bella è che posso godermi il prodotto senza essere influenzata dal chiacchiericcio di fondo, la cosa brutta è che poi non ho nessuno con cui parlarne.
Non è il film più sfolgorante che abbia mai visto, in certi punti è didascalico e in altri estremamente criptico. Non è adatto a stomaci deboli e il “2” si poteva evitare.
Ma è comunque significativo per me vedere trattati sullo schermo i temi delle disuguaglianze sociali, e in modo così cruento. Perché le ignoriamo - come ignoriamo tanti altri fatti gravissimi - ma nel profondo probabilmente è proprio così che funziona la perdita di senso di collettività che stiamo sperimentando negli ultimi anni: come qualcuno che divora tutto il tuo cibo e poi divora anche te se senza remore se a un tratto non può più mangiare.
Sfortunatamente o fortunatamente perché ho scritto davvero già troppo, questo mese non ho visto altri film degni di nota (ne ho visto uno trash un sabato sera per distrarmi dalla nausea ma sorvoliamo).
Ho letto invece un altro libro, su cui non mi dilungherò troppo, La stanza di Giovanni di James Baldwin (1953). Anche questo è un bel pugno nello stomaco a tema relazioni, è lungo meno di 200 pagine ma ho dovuto interromperlo più volte per quanto è intenso.
Ho anche finito Sputiamo su Hegel una raccolta di saggi del 1970 della scrittrice e critica d’arte italiana Carla Lonzi, femminista teorica dell’autocoscienza e della differenza sessuale (di cui tra l’altro hanno appena pubblicato i diari, senti il mio conto piangere disperatamente? Scherzo, niente libri fino al 2025).
Mi servirebbe studiare altri cinque anni per poterlo spiegare a qualcuno ma lo regalerei a tutte le mie amiche, basti questo.
Per concludere volevo ringraziare - anche se sembra stucchevole - tutte le persone che si sono prese del tempo per leggere il primo episodio.
Per alcuni potrà essere un numero infimo, abituati come siamo a contenuti che accumulano milioni di visualizzazioni, ma per me non è assolutamente scontato.
Se sei arrivatæ anche alla fine di tutto questo, ti ringrazio dal profondo del cuore. Ti meriti una foto di Camilla versione santino portafortuna:
Al prossimo mese!
(E se non ci vediamo, tanti auguri a te e famiglia)
Venuto al mondo di Margaret Mazzantini, 2008. Ne hanno tratto anche un film con Castellitto capace di far piangere anche il più crudele dei malesseri.
“💌 Lo spazio di Alessia”